Cerca nel blog

Intervista in occasione della personale allo "Spazio E" di Enrica Pedretti, a Ghemme (NO), tenutasi dal 21 ottobre al 23 novembre 2016

Spazio E: in questa tua personale hai messo l’accento sul progetto o sull’idea all’origine del progetto?
Francesco Falcolini: i lavori esposti allo “Spazio E”, tra ottobre e novembre, appartengono ad un progetto, titolato I Barbari Siamo noi e nato nel 2010, composto di una dozzina di lavori che rispecchiano il mio modus operandi, niente affatto omogeneo, né sotto il profilo stilistico, né sotto quello del processo creativo e operativo. In questa personale tuttavia non appare il progetto, non nel suo insieme, ma solo una selezione dei lavori che lo compongono
–selezione operata da Enrica Pedretti- all’interno della quale sono presentati alcuni oli su tela tecnicamente e stilisticamente affini, affiancati da soluzioni altre, come l’installazione, la fotografia e la grafica.

D. Come definiresti il tuo stile, e se dovessi collocare in un museo una delle tue opere, in quale ti piacerebbe?
R. Definiscono spesso il mio lavoro come espressionista. Non è un caso che la parola non indichi propriamente uno stile, ma piuttosto un modo di approcciare l’arte che abbraccia un ambito vasto e vario della storia dell’arte. Ho diversi punti di partenza, diversi sono i modi di viaggiare attraverso il lavoro e più d’una sono le finalità che mi prefiggo. Non di rado ho utilizzato strumenti altri dalla pittura, anche mescolando tecniche diverse.
Il museo adatto per un mio lavoro? Il Guggenheim di New York, ma anche quello di Bilbao. No, davvero, penso che una chiesa sarebbe il luogo ideale per certi miei lavori: il cristianesimo e la sua lunga storia oscurantista, fanatica, sessuofobica, misogina, conflittuale, xenofoba, megalomane, avida, sanguinaria, superstiziosa… mi ha sempre ispirato, anche indirettamente.
La mia pittura appartiene al secolo scorso, ed io sono molto affezionato al GAM di Milano, perché lo sento molto più e molto meglio di un museo, si dispiega negli ambienti intimi di una villa reale. Gran parte delle opere esposte al GAM appartengono ai sussurri pacati del XIX secolo, ma a me piace molto anche il suo piano alto, con le collezioni Grossi e Vismara, nelle quali, tra l’altro, c’è un Novecento italiano di pregio, lontano dalla volgarità del perpetuamente celebrato futurismo.

D. Quando lavori pensi a qualcosa che vorresti collezionare tu, o lavori in funzione di chi guarderà le tue opere?
R. Se, mentre lavoro, percepisco gli occhi di chi osserverà quello che sto realizzando, mi inibisco, si infrange cioè quella cupola insonorizzata nella quale si sprigiona l’estasi della concentrazione. Un rapporto con chi ne potrà fruire c’è, ma è alla fonte. E’ nel desiderio di comunicare, di esprimere con forza inequivocabile quel che desidero si legga; come nella dinamica del manifesto pubblicitario. La metafora è uno strumento straordinario nella poetica dell’arte, ma penso che ad una civiltà volgare e umanamente analfabeta com’è la civiltà contemporanea, non si possa concedere nulla, non si debba concedere nulla, che non vi sia spazio sociale per la poesia.

D. Qual è il tuo rapporto col collezionismo d’arte, e chi acquista le tue opere, cosa si porta a casa?
R. Il mio lavoro non nasce per un pubblico compiacente, gratificato. Ho sempre lavorato per me stesso. Ho lavorato urtando volontariamente e violentemente il gusto contemporaneo. La contemporaneità è definibile come bulimica –una voracità disperata e autodistruttiva che è anche alimentare, ma fagocita tutto; e il suo gusto estetico si definisce nell’opposto: nell’assenza, nel collezionare ostinatamente forme e contenuti anoressici, svuotati. Ecco, il mio lavoro è volutamente sovraccarico.
Ma la drammaticità polemica di gran parte del mio lavoro raggiunge spesso punte tanto estreme da trasmettere robusti echi ironici. Miei lavori sono finiti nella cameretta dei figli del collezionista di turno; uno è stato rimosso dalla sala d’attesa di uno psicoanalisa, perché definito inquietante dal pubblico dei pazienti; altri sono stati censurati.
Nel 2005 ho prodotto alcune decine di lavori di formato medio piccolo, su cartone, senza pretese, ma molto colorati. Li ho prodotti col fine esplicito di vendere; per una volta volevo offrire oggetti nati per essere acquistati. Li ho esposti in tre diversi locali serali e ristoranti, per periodi relativamente brevi, e ne ho venduti la gran parte.

D. Quali i tuoi progetti per il futuro?

R. Curarmi un orto. E imparare a morire, un’arte da tempo dimenticata, volutamente rimossa. Neghiamo la morte, negandoci per conseguenza la vita.
Ma la domanda concerneva il mio ruolo di creativo. Ecco: desidero concentrarmi sulla poesia  -sì, proprio la poesia, per la quale prima ho negato un possibile ruolo sociale- tessendola, come mandala, col linguaggio che più di ogni altro mi appartiene da sempre, il disegno.